L’interpretazione del disagio e come scegliamo di affrontarlo possono avere delle conseguenze molto diverse sulla nostra vita, e sulla soluzione ai nostri problemi.

Oggi prenderò spunto dal tema della diagnosi di iperattività per parlarvi di una linea di tendenza nella scelta delle cure mediche e nelle strategie da adottare in caso di difficoltà, quando si tratta di cure.

Il tema della sindrome da iperattività, già discusso su blogmamma, resta sempre di grande attualità perché secondo me è un po’ il prototipo delle scelte che facciamo, in Italia ma non solo, e di come interpretiamo il -nostro- disagio comportamentale.

Oggi parliamo di bambini, ma intendo discutere anche di noi adulti, in tutti quei casi in cui la sofferenza psichica ci porta un malessere che da soli non sappiamo comprendere né risolvere. Da questa situazione scaturisce una serie di scelte che possono fare la differenza sulla soluzione del problema.

Il fatto: numerose ricerche scientifiche sottolineano che negli Stati Uniti almeno il 9% dei bambini in età scolare hanno una diagnosi di ADHD e sono curati con farmaci. In Francia lo stesso dato è inferiore allo 0,5%.

Gli studiosi si sono chiesti quale misterioso fenomeno possa essere avvenuto in Francia per risparmiare i bambini da questa condizione, che in tutto il mondo è curata come una patologia di origine biologico-neurologica!

In realtà, in Francia l’ADHD è vista come una condizione clinica che ha cause psico-sociali e relazionali.
Paroline appartenemente insignificanti che ma cambiano il corso della vita dei piccoli pazienti.

Il disagio, secondo alcuni professionisti, non è “nel cervello” del bambino, ma nel contesto in cui vive, ed è per questo che scelgono di risolvere il problema con la psicoterapia o con la consulenza familiare.

Nella misura in cui si riesce a risolvere ciò che è andato storto nelle relazioni del bambino, i sintomi regrediscono e la situazione ha un netto miglioramento.

Ed in Italia? Utilizzo questo quadro clinico un po’ come pretesto per riflettere su una condizione che mi capita di osservare ripetutamente davanti al disagio psicologico.
Che si tratti di adulti o di bambini, vedo frequentemente come la maggior parte della gente (che spesso include anche i professionisti della salute) si limita ad osservare i sintomi dall’esterno, in termini quantitativi.

Nel mio lavoro di terapeuta posso sperimentare come cercare le cause di un comportamento nel mondo relazionale della persona (famiglia, scuola, lavoro, amici) è un modo più lungo, ma più sicuro ed efficace per risolvere il problema, per aiutare la persona a risolvere la cosa attraverso strumenti che gli diano un’ autonomia ed una capacità di soluzione davanti ad una difficoltà.

Un terapia farmacologica ha un’enormità di effetti collaterali e non agisce sulle risorse della persona, che non acquisisce nuove strategie di comportamento, e che per questo è destinata a tornare sempre al punto di partenza.

La causa di tutto questo è la visione medicalizzata che abbiamo di ogni patologia: anche in Italia, la nostra classe medica ha una voce importante nell’esprimere le proprie opinioni, ed è purtroppo ancora fortemente legata ad una “presa in carico” di tipo farmacologico.

La gente, d’altro canto, fa prima a scegliere la soluzione del “mandare giù una pillola“, piuttosto che imbarcarsi in una faticosa analisi dei propri vissuti.

Per quanto gli psicoterapeuti in Italia siano tanti e ben formati, è ancora bassa la percentuale di persone che pensa ad un approccio di questo tipo per la soluzione ai propri problemi. Molti, quando lo fanno, si ricolgono ad un terapeuta come se dovesse fornire la cura preconfezionata, la pillola magica che risolve tutto.

Si ignora, in tutto questo, il lavoro personale che è necessario affinché un disagio possa davvero trasformarsi e trasformarci.

Resto dell’opinione che pensare di risolvere l’ansia, la depressione, un rapporto sbagliato col cibo, l’agitazione, attraverso una cura farmacologica equivale a non risolvere il problema ma postergarlo, con l’aggravante di sottoporci a effetti collaterali della cura, pericolosi per la nostra salute.

Quando si decide di porre fine ad un disagio che ci accompagna, la cosa migliore da fare è cominciare a lavorare su noi stessi, a cambiare la nostra percezione del mondo. Per quanto un farmaco possa alleviare i nostri sintomi, non ci permetterà mai di confrontarci con cause ed effetti del nostro comportamento, laddove è la consapevolezza di noi stessi che ci rende persone migliori.

Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

foto: valstietis.lt